1876 Simona Grossi Articoli
18 aprile, 2019

La chiave per aprire definitivamente all'economia circolare è nel ruolo della produzione industriale che deve diventare ecosostenibile

E' ormai da diverso tempo che si parla di economia circolare, e di tecniche nazionali o sovranazionali volte a sostituire un produzione di scarti finora irresponsabile con una gestione più virtuosa e attenta alla salvaguardia dell'ambiente.

A fronte di una continua regolazione di quanto avviene a valle del processo di consumo è subentrata finalmente una presa di posizione imprenditoriale volta a responsabilizzare le stesse aziende in merito a quanto materiale, tra quello che producono, rappresenta in realtà un problema che si ripercuote nell'intero ciclo di vita del prodotto stesso.

Lo spunto viene da alcune foto diventate in poco tempo virali sul web (migliaia di condivisioni nell'arco di poche ore) che ritraevano un packaging innovativo prodotto da una catena di supermercati thailandese. La persona che ha scattato le foto di questo innovativo confezionamento in foglie di banano usate al posto della plastica, Simon dell'azienda Perfect Homes Chiang Mai, ha pubblicato il suo post affermando come quelle fossero delle semplici fotografie ottenute tramite smartphone che rappresentavano però una grande idea, manifestando poi una sincera euforia per il fatto che avessero raggiunto un tale livello di viralità[1].

Ma non è l'unico buon esempio: anche in Australia alcune realtà imprenditoriali si sono adoperate per utilizzare materiali rinnovabili a lungo termine per fornire alla produzione una valida alternativa sostenibile per imballare i prodotti.

E' la stessa azienda Biopak, operante nel settore del packaging, a scrivere nella sua mission come "i nostri prodotti provengono da fonti sostenibili provenienti da piantagioni pianificate, scegliendo materiali facilmente rinnovabili e biodegradabili, che producono oggetti riciclabili o compostabili riducendo, quindi, la quantità da destinare nelle discariche"[2].

Il fine è di sensibilizzare le persone circa l'impatto ambientale che generano tutti gli imballaggi usa e getta che siamo soliti utilizzare, e fornire quindi loro alternative sostenibili. Un'inversione di responsabilità, dunque, che vede le stesse imprese farsi carico del tema della circolarità e intervenire a monte della produzione con nuovi materiali e pratiche ecosostenibili.

Una volta la carta e la plastica convenzionali erano i materiali di riferimento per le forniture di imballaggi alimentari. Noi invece offriamo un'alternativa ecocompatibile per le aziende che vogliono preservare e proteggere l'ambiente per le generazioni attuali e future. Misuriamo, riduciamo dove possibile e quindi compensiamo le eventuali emissioni di gas serra residue associate ai nostri prodotti e operazioni. E dal 2010 sono state compensate circa 110 mila tonnellate di emissioni di CO2”, ci dicono i responsabili di Biopak.

Si tratta di prodotti dotati di una certificazione a zero emissioni, che non esauriscono il loro ciclo di consumo alla prima esperienza ma consentono un loro riciclo, una ri-commercializzazione o un compostaggio domestico.

I contenitori del caffè BioCup, per citare un esempio, possono finire insieme agli avanzi di cibo e quindi bypassare anche quel semplice, ma a volte decisivo, processo di separazione domestica dei rifiuti che spesso contribuisce a generare scarti indifferenziati. Tanto che, come assicurano dalla sede australiana, la sostenibilità aziendale è ben chiara in ogni certificazione oltre che nella mission, dove oltretutto assicura ai consumatori la restituzione del 7,5% dei profitti, dei quali l'1% viene destinato alla protezione delle foreste pluviali, il 2,5% ai progetti di energia rinnovabile e il restante 4% al cambiamento sociale.

Siamo stati la prima azienda di imballaggi a diventare carbon neutral in Australia e Nuova Zelanda nel 2010. E la compensazione delle inevitabili emissioni di gas serra create attraverso la produzione, il trasporto e lo smaltimento dei nostri prodotti ha finora permesso di risparmiare oltre 40 milioni di litri di carburante" è quanto comunicano mentre mettono in commercio tazze e ciotole sostenibili, posate e bags in bioplastica o plastica vegetale, compostabile in una struttura commerciale.

Fortunatamente sembra che i consumatori abbiano aumentato la loro consapevolezza nei confronti del problema e che, di conseguenza, il mercato cominci a premiare questo genere di realtà che hanno a cuore il tema e lo manifestano all'interno dei loro processi produttivi. La domanda d’imballaggi virtuosi è infatti in una crescita continua e si stima che raggiungerà un valore di mercato di circa 440,3 miliardi di dollari entro il 2025 crescendo annualmente di 7,7 punti percentuale[3].

Un altro esempio virtuoso lo fornisce la designer dell'Università Diego Portales Margarita Talep, che ha fondato l'azienda Desintegra.me, un progetto industriale volto a sostituire la plastica monouso con un innovativo materiale idrosolubile proveniente dalle alghe. Ideato per contenere prodotti alimentari secchi come la pasta o i biscotti, questo packaging arriva direttamente dall'agar-agar e si tratta di una particolare bio-plastica in grado di biodegradarsi autonomamente.

"La crescente produzione e l’uso eccessivo di materie plastiche", scrive la stessa Talep, "minacciano di contaminare ogni angolo del pianeta, specialmente gli oceani. Si stima che 8 milioni di tonnellate di plastica monouso entrino ogni anno negli oceani, dove danneggiano seriamente la salute degli ecosistemi acquatici e la sopravvivenza delle specie che li circondano". Ed è preoccupante costatare come "più del 40% della plastica [sia] di uso effimero, cioè viene usato una sola volta e poi gettato via: tra questi ci sono piatti, utensili, lampadine, borse, bicchieri, contenitori" aggiunge[4].

Il suo è un esempio che mi auguro venga ben presto seguito dal maggior numero di aziende, perché sta a loro la responsabilità di immettere nel ciclo di consumo delle persone dei prodotti che, in qualsiasi caso, non finiranno per aggiungersi alla già emergenziale mole di materiali che il nostro pianeta non è più in grado di sopportare.

Simona Grossi