L'innovazione tecnologica deve diventare innovazione sociale per confermarsi un vero motore di cambiamento
Stiamo vivendo un periodo in cui l'innovazione tecnologica, dall'intelligenza artificiale passando per lo sviluppo dei robot fino all'utilizzo dei dati personali e le prospettive del GDPR, sta colmando molte delle necessità operative richieste e deve trovare necessariamente un campo d'intervento dove continuare a far girare il proprio motore del cambiamento.
Abbiamo oggi a disposizione una quantità di tecnologia probabilmente anche in eccesso rispetto a quanto potrebbe esserci utile per lo sviluppo umano, con alcune applicazioni che fino a poco tempo fa erano impensabili nello sviluppo. Quello che manca, però, è una reale riflessione sul loro sviluppo e sulle loro possibili implicazioni. Viviamo con il mito del futuribile senza riflettere a fondo su quanto tutto questo impatta sulla vita delle persone e sul loro inserimento nei contesti urbani delle metropoli.
Spostare le mansioni ripetitive dall'uomo alle macchine, ad esempio, potrebbe considerarsi un ottimo intento se solo impiegare la robotica non stesse obbligando molte persone a lasciare le loro mansioni residuali. Basti pensare alle aziende dei grandi retailer online o di consegne a domicilio, che obbligano le risorse rimanenti a turni simili a quelli di Chaplin in Tempi Moderni in cambio di un salario sempre più striminzito.
Se la tecnologia avanza ma il welfare e le condizioni di vita della popolazione regredisce, se, cioè, non si pone un attento e costante sguardo sul sociale, ha senso parlare di innovazione?
Una società utopisticamente all'avanguardia tecnologica le cui innovazioni, però, non impediscono al mercato del lavoro di retrocedere i diritti dei lavoratori di cento anni, risulta quindi completamente inutile, in quanto ha come vizio di fondo l'inaccessibilità della sua fruizione da parte di chi è socialmente emarginato.
E' per questo che bisogna fare un distinguo tra alcune applicazioni, come quelle dirette dal professor Fuggetta al Cefriel quali l'airbag per motociclisti della Dainese o gli esoscheletri realizzati dall'Istituto Italiano di Tecnologia destinati ai malati di SLA, e le altre invece fini a se stesse, come ad esempio gli sviluppi della cibernetica antropomorfa di Hiroshi Ishiguro. E' famosa, in questo caso, la presentazione della prof. Stefania Bandini, Direttore del Complex Systems & Artificial Intelligence Researce Center dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca, in cui si domanda se un androide possa mai tenere in braccio un gatto che si divincola.
Il margine è sottile, ma è tempo che assumiamo noi tutti una maggiore consapevolezza delle implicazioni digitali della nostra vita, a partire dall'invadenza e il sempre più crescente potere delle imprese OTT, detentrici dei nostri dati e interessate a uno sviluppo di innovazione centrato esclusivamente sul profitto ai danni della qualità della vita delle persone. Grazie all'accumularsi del loro capitale, poi, è loro possibile l'avviamento di progetti di ricerca accademica e il successivo brainwashing sociale, che spesso si ramifica in attività lobbistiche di influenza governativa e istituzionale.
Ci si allontana sempre di più dallo scopo originario della tecnologia, e cioè con la leggera e graduale facilitazione della vita delle persone attraverso un più snello processo di operativismo sociale e lavorativo.
Anche il nostro sistema democratico ne risente, minato e attaccato (oltre che dal paradosso di un world wide web completamente libero e paritario) dal mirato utilizzo dei dati da parte di poche aziende centralizzate e, dall'altra parte, da un progressivo impoverimento del discorso pubblico, a sua volta condizionato dal grande e reale problema della costante attenzione parziale. C'è un crollo dell'approfondimento e dell'analisi che incentiva reazioni attitudinali e comunicative di pancia e non di testa, in un costante livellamento verso il basso.
La parentesi delle start-up, dal canto loro, non è mai sbocciata. Non si trovano finanziamenti e le innovazioni non ne garantiscono una sufficiente rivoluzione dei consumi. E' interessante considerare le parole del presidente del Digital Transformation Institute Stefano Epifani quando afferma che "dobbiamo stare attenti a che non si finisca in quello che qualcuno definì tanto tempo fa ‘modello Klondike’: ossia quel modello in cui quando c’è una corsa all’oro, gli unici che ci guadagnano sicuramente sono coloro i quali vendono picconi. E non serve chiedersi chi sia, nel mondo delle startup, a venderli".
L'ultimo vero ostacolo riguarda il considerare l'innovazione come antitetica alla competenza, al senso critico, al sapere, alla formazione e finanche all'educazione. Come se fosse un sinonimo di approssimazione allo studio, di facile retorica, di degrado del senso critico.
Risulta esemplare, in questo senso, l'invito del docente di Comunicazione Sociale all'Università Iulm Alberto Contri di promuovere un movimento GRU, Gruppi di Resistenza Umana, con l'obiettivo di fare formazione attraverso seminari volti a creare, in Italia, un nuovo Rinascimento "in spe contra spem"[1].